Joey Heredia

Incontro al Grand Visconti Palace di Milano

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Joey Heredia nasce nel 1959 a Los Angeles, figlio di una cantante e un batterista, entrambi professionisti. Gli esordi di Joey sulla batteria risalgono al 1975, quando gli fu regalato il suo primo set Slingerland, sul quale egli potè sbizzarrirsi cercando di imitare i batteristi delle sue band preferite, i Tower of power e i Blood sweat & tears.

Joey Heredia

Incontro al Grand Visconti Palace di Milano


Biografia di Joey Heredia:

Joey Heredia nasce nel 1959 a Los Angeles, figlio di una cantante e un batterista, entrambi professionisti. Gli esordi di Joey sulla batteria risalgono al 1975, quando gli fu regalato il suo primo set Slingerland, sul quale egli potè sbizzarrirsi cercando di imitare i batteristi delle sue band preferite, i Tower of power e i Blood sweat & tears. Il suo straordinario talento lo condusse in poco più di un anno a suonare con alcune delle Top-40 bands di East LA, il quartiere messicano nel quale era cresciuto, in qualità di batterista anzitutto, ma anche come percussionista quando ve ne fosse bisogno. Già avviato verso un radioso futuro, conobbe in quegli anni Steve Loza, professore di etnomusicologia ad UCLA, che di lì a poco sarebbe diventato il suo mentore, allargando i suoi orizzonti alla musica classica e al jazz e convincendo il padre di Joey a fargli studiare seriamente musica. Joey, fino ad allora autodidatta, frequentò così l’East Los Angeles Junior College, e poi il Los Angeles City College, dovè studio teoria, lettura, big band. Al termine dei suoi studi, aveva tutte le carte in regola per approdare al mondo dei big. Gli mancava solo l’occasione. Gli venne da Billy Childs, che lo volle come batterista per il tour di Dianne Reeves. Questa esperienza generò un notevole interesse nei confronti dell’allora poco più che ventenne Heredia, che l’anno successivo si unì alla band di Tania Maria, al posto dell’indisponibile Alex Acuna. Era la consacrazione. Da allora la lista delle sue collaborazioni si è allungata di molto, includendo artisti del calibro di Sheila Escovedo (Sheila E), Manhattan Transfer, Stevie Wonder, Joe Sample, Scott Hendereson, Robben Ford, Frank Gambale, Freddie Hubbard, Jeff Berlin, Steve Lukather.

Intervista a Joey Heredia: joey

Incontro Joey Heredia al Grand Visconti Palace di Milano, l’albergo nel quale alloggiano gli artisti che si esibiscono al Blue Note. È in tour con Steve Lukather, il celebre chitarrista dei Toto. Sono le 16 in punto quando Joey sbuca da un corridoio laterale alla hall. Cappello pigiato sul volto, occhi decisamente assonnati, si avvicina timidamente e la prima cosa che mi chiede è se dobbiamo svolgere l’intervista lì o possiamo andare altrove. Desidererebbe vedere Milano. Accolgo volentieri la sua richiesta e mi improvviso guida turistica. Approdiamo a Via Dante, la strada pedonale che congiunge Piazza del Duomo al Castello Sforzesco, e ci infiliamo in un bar. Il freddo è pungente, ma il calore di Joey mi mette a mio agio.

Alessandro Chiara – Joey, una delle cose che colpisce di più leggendo la tua biografia è che i tuoi genitori, pur essendo musicisti, ti hanno scoraggiato dall’intraprendere la carriera di musicista. Perché?

Joey Heredia -mia madre era una cantante e divenne professionista per caso, trascinata ad un concorso da suo fratello. Aveva solo 15 anni. Ebbe successo negli anni ’40 e ’50 in Sud America. Poi si trasferì a Los Angeles, dove conobbe mio padre. Quando nacqui io, smise di cantare. E si ritrovò poco dopo a combattere con un cancro per ben due volte. Mio padre, batterista, ebbe un infarto nel pieno della sua carriera e dovette smettere di suonare. Entrambi avevano dedicato la loro vita alla musica, ma una volta malati constatarono amaramente che il music business li aveva abbandonati. Mia mamma per esempio non ricevette mai neppure un soldo per le canzoni che aveva composto e i dischi che aveva registrato. Il sistema delle royalties era allora architettato esclusivamente per rapinare gli artisti. Mio padre aveva invece cinquant’anni quando venne colpito dall’ infarto. Era nel pieno della sua carriera, con almeno altri venti anni di lavoro davanti a sè. Ma dopo la malattia, non ci fu più nulla da fare per lui. Non posso quindi biasimarli per avermi scoraggiato dall’intraprendere la carriera di musicista. D’altra parte non è il caso che ti ricordi le difficoltè connesse a questo tipo di professione!

Alessandro Chiara -Joey, due aspetti che colpiscono del tuo modo di suonare sono il timing impeccabile e la grande varietà dinamica. Come li hai sviluppati?

Joey Heredia – Il timing è legato al groove e il groove al ballo. I gruppi nei quali militavo all’inizio della mia carriera era gruppi da ballo, composti da otto o dieci elementi e con una sezione fiati corposa, da due a quattro fiati. Proponevano le grandi hits che si sentivano per radio, da James Brown ai Tower of power. Era essenziale per me mantenere un backbeat solido perché la gente potesse ballare. Altrimenti mi avrebbero licenziato! Con loro ho sviluppato quindi un buon timing e una pacca notevole, visto che i gruppi erano numerosi e l’amplificazione scarsa. Era già tanto se mi infilavano un microfono nella grancassa! È stato solo più tardi e suonando in formazioni più ridotte che ho dovuto prestare una maggiore attenzione all’intera gamma dinamica. L’ho poi ulteriormente perfezionata nel corso della mia carriera curando l’elemento ambientale del luogo in cui si suona. È una cosa che non tutti i batteristi considerano, ma essenziale. «Play the room», è questa l’espressione che si usa per indicare la capacità di un musicista di adeguare il suo modo di suonare all’ambiente nel quale si esibisce.

Alessandro Chiara -Le collaborazioni con Dianne Reeves e Tania Maria sono state solo l’inizio di una carriera folgorante, che ti ha portato a suonare con Tribal Tech, Frank Gambale, Steve Lukather e moltissimi altri artisti di fama internazionale. Ma sono molte di più le collaborazioni che hai rifiutato. Come selezioni i progetti musicali di cui vuoi essere parte?

Joey Heredia – Ti faccio un esempio. Due anni fa ho cominciato ad approndire il flamenco. Ma non quella schifezza pop alla Gipsy Kings, bensì the real stuff (ride). Ho così chiesto ad un amico chitarrista che studiava flamenco da diverso tempo di consigliarmi qualche disco. Mi ha portato in un negozio e lì ho comprato un paio di cd. Ho cominciato così ad ascoltare quella musica. Questo è stato il primo passo. Successivamente gli ho chiesto se c’era un chitarrista che fosse veramente in grado di suonare quella roba e quello stesso amico mi ha consigliato il suo insegnante, Adam Del Monte. La fortuna ha voluto che io avessi suonato qualche tempo prima con il fratello di Del Monte, un bassista. È stato così che tramite lui sono riuscito ad entrare in contatto con Adam. La morale della storia è che io sono selettivo non perché pensi di essere migliore di qualcun altro, ma perché voglio imparare. Essendo già ad un livello alto, perfezionarmi e perfezionare l’arte che pratico significa essere selettivi. La stessa cosa è successa circa quattro anni fa con la musica cubana. Ci sono voluto entrare ancora più dentro di quanto avessi fatto in passato. Mi è stato difficile farlo prima di allora perché ero sempre in tour. Ho deciso di prendere un break e di restare in città per avere il tempo di suonare con le salsa band locali. Ho iniziato così suonando i timbales in una band, al posto di Poncho Sanchez. A distanza di qualche mese mi sono immediatamente sentito migliorato e mi sono anche reso conto di quanto questa esperienza avesse arricchito il mio modo di suonare la batteria.

Alessandro Chiara – Freddy Gruber è oggi sulla bocca di tutti per aver insegnato a batteristi del calibro di Dave Weckl e Steve Smith? Sei stato anche tu suo allievo?

Joey Heredia – No, però viviamo nella stessa zona di LA e capita spesso che lui venga a sentire i miei concerti. Mi conosce talmente bene, che sarebbe probabilmente la persona più indicata a dirti come suono! È un uomo molto lucido e un incredibile conoscitore della batteria.

Alessandro Chiara – Oltre ad essere un batterista e un didatta, sei anche produttore: ci vuoi parlare della tua etichetta, la Groove Gallery Records?

Joey Heredia – Per la verità si tratta ancora di un progetto, che spero si concretizzi l’anno prossimo. Avevo fino a poco tempo fa una compagnia di produzione discografica, che però non è andata a buon fine, perché ho avuto qualche problema con il mio socio, un avvocato del quale pensavo di potermi fidare, ma che si è rivelato un opportunista. Purtroppo ho imparato a mie spese che è meglio associarsi a persone che condividano la tua stessa passione, perché altrimenti rischi di essere fregato prima o poi. Lui non guardava alla musica nello stesso modo in cui lo faccio io. In ogni caso la Groove Gallery Records nascerà inizialmente con l’idea di produrre progetti musicali nei quali io sia coinvolto, ma che non verranno distribuiti a mio nome. Ho uno studio perfettamente attrezzato nel quale i dischi verrebbero realizzati e ho le conoscenze perché vengano distribuiti e venduti in tutti il mondo.

Alessandro Chiara – A proposito di distribuzione, sembra che uno mezzi più potenti oggi per distribuire musica, soprattutto quella di artisti emergenti, sia internet, che d’altra parte però è additata come la causa principale della pirateria musicale e della crisi del mercato discografico. Cosa pensi delle opportunità che la rete offre e dei rischi ad essa collegati?

Joey Heredia – Penso che siano principalmente le etichette discografiche a lamentarsene. Sono state loro a diffondere la credenza che sia la rete a danneggiare il mercato discografico, ma non è così. In realtà la colpa è delle stesse etichette, delle cosiddette Major, e della loro avidità. Molti anni fa esse avevano all’interno della propria struttura un dipartimento che andava sotto il nome di Artist Development Department. Un artista del quale si intravedeva il talento veniva educato ad esprimersi nel migliore dei modi e a crescere artisticamente. Aveva per esempio a propria disposizione insegnanti di canto e di ballo, o consulenti musicali. Per come la vedo io questo dipartimento era il più importante di tutti all’interno della struttura organizzativa di un’etichetta, perché era l’unico modo per proteggere e valorizzare quello che a tutti gli effetti è un’investimento, cioè l’artista che viene prodotto. Quando le Major hanno pensato di poterne fare a meno? Quando hanno cominciato a produrre solo cloni di artisti che avevano già successo. Oggi le etichette discografiche non investono soldi su qualcuno, ma piuttosto gli prestano dei soldi! Sono diventate delle banche. E prima che l’artista faccia qualche soldo occorrono due o anche tre cd di successo pubblicati. Ma non è tutto. Vengono scelti cantanti o gruppi giovani e con un look accattivante, indipendentemente dal loro talento, solo perché sono i teenager i principali consumatori di musica. Le produzioni poi riescono a fare miracoli e a correggere l’intonazione dei cantanti più sgangherati! Avril Lavigne ne è un esempio lampante. Non è capace di cantare, non scrive le canzoni, non le arrangia. Ma nelle mani delle persone giuste è diventata una vera e propria rock star e un’icona per molti ragazzi. Sono insomma le etichette a fregarsi da sole. Con la loro politica assurda, che ha portato il prezzo dei cd a livelli improponibili, 20 o 30$ per un prodotto che a loro costa dai 50 cents al dollaro e mezzo e che qualitativamente, per le ragioni di cui ho parlato sopra, spesso non li vale. I ragazzi non possono permettersi quelle cifre. Anche in passato i ragazzini non potevano permettersele, benchè fossero più basse in proporzione ad oggi, ma l’industria discografica aveva pensato a loro, sfornando i 45 giri, che contenevano pezzi singoli. I ragazzi ne compravano a tonnellate. E dopo i 45 giri vennero gli EP, che contenevano un singolo e magari un suo remix. Oggi i singoli sono scomparsi. Se ti piace un brano ti devi comprare l’intero disco, per poi scoprire che di diciassette canzoni se ne salvano due. Le etichette sono subdole. Infarciscono i cd con un sacco di canzoni, per giustificarne il prezzo, ma poi buona parte di esse fa schifo! Internet è l’equivalente dei 45 giri di una volta, è il singolo che i ragazzi da sempre vogliono. Fortunatamente però oggi ci sono le etichette indipendenti. Sono loro, nel modo in cui approcciano la musica, un Artist Development Department in sé. Fanno quello che fanno, nel modo in cui lo fanno, perché amano la musica!

Alessandro Chiara – Il nostro incontro avviene in occasione del tuo tour con Steve Lukather. Ci puoi dire come l’hai conosciuto?

Joey Heredia – Lo conosco da venticinque anni, ci siamo conosciuti al Baked Potatoes, che è uno dei principali locali di LA. Il progetto El Grupo, che è quello che stiamo portando in giro in questi giorni, è nato un anno fa circa, ma per caso, da un altro progetto. A novembre dello scorso anno Steve Lukather ha contattato Nuno Bettencourt per fare un tour in Giappone insieme. Nuno ha accolto entusiasticamente la proposta di Steve, offrendosi di formare la band. Ha così contattato il trio composto da me, Renato e Marco, i quali, essendo indisponibili, sono stati sostituiti da Steve Weingart (attuale tastierista della Dave Weckl Band, ndr) e Oscar Cartaya. All’inizio ignoravo che del gruppo avrebbe fatto parte anche Steve! Dopo alcuni concerti in Giappone, Nuno ha dovuto lasciare e la band è andava avanti con la formazione che attualemente va sotto il nome di El Grupo.

Alessandro Chiara – Grazie Joey, parlare con te è stato un vero piacere e anche molto istruttivo!

Joey Heredia – Il piacere è stato mio! Un saluto a tutti gli amici di Planet Drum

Al termine dell’intervista io e Joey abbiamo ancora alcuni minuti per fare quattro chiacchere, prima dell’arrivo del taxi che lo porterà al Blue Note. Mi parla della sua nuova ragazza europea e di quanto adori l’Europa e il clima politico e culturale che si respira qui. Realizzo che l’intervista ha un avuto un leitmotiv: l’amore per la musica. Joey l’ha evocato più volte, ed è sicuramente ad esso che in qualità di mucisisti, manager o discografici dobbiamo puntualmente richiarmarci per trovare o ritrovare il senso più profondo di ciò che facciamo.
Alessandro Chiara

setIl set di Joey:

Batteria DW, da sinistra:
12” wood snare
14” brass snare
8” e 10” toms
12” e 14” floor toms
22” bass drum

Percussioni, da sinistra:
– 13” e 14” LP Steel Timbales Tito Puente Model. Sopra LP Jam Block, LP Salsa Bongo Cowbell, LP Salsa Timbale Cowbell
– Sulla cassa LP Rock Cowbell
– A destra del secondo timpano Pete Engelhart Shade Drums

Piatti SABIAN, da sinistra:
14” EQ Hats
12” Mini-hats (poco sopra il tom da 8” a sinistra)
10” AAX Splash (due, uno a destra e uno a sinistra dei mini-hats)
12” AAX Mini Chinese
16” AA El Sabor (quattro, tre a sinistra del Ride e uno a destra)
20” Hand Hammered Medium Heavy Ride
16” AA Rocktagon Crash

Bacchette:
Vater Joey Heredia Signature Model, a metà strada fra 5A e 5B, in acero e non quercia, meno resistenti, ma più leggere e versatili, con una punta ovale, che esalta i toni medi dei piatti, i più caldi dal punto di vista sonoro

Meccaniche:
DW
Joey è endorser DW, Sabian, LP, Vater, Audix microphones

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