Tony Arco, “The Jazz Master”
Incontro Tony Arco, batterista residente a Milano che vanta collaborazioni con il gotha del jazz nostrano e internazionale, performer di prima categoria. È autore di dischi e di celebri metodi per batteria, nonché didatta apprezzato in tutta Italia. Questa intervista si svolge in una serata di fine primavera a Catania, città dove Tony insegna al triennio jazz dell’Istituto superiore di studi musicali “V. Bellini”, ed è il riassunto di una splendida chiacchierata.
Salvo Privitera: Ciao Tony, conosci la nostra web-magazine?
Tony Arco: Certo, ricevo puntualmente la newsletter.
SA: Che ne pensi?
TA: Mi fa piacere quando la ricevo, ci sono informazioni sul mondo della batteria, prodotti, interviste, rubriche, novità. È interessante ed utile.
SA: Domanda di rito, come nasce la tua passione per la musica?
TA: La passione per la musica ce l’ho da sempre, è una cosa innata. Ricordo che quando ero molto piccolo in casa mia c’era un chitarra appartenuta a mio zio, ed io la prendevo e facevo finta di suonare e cantavo. Successivamente ho iniziato a suonarla davvero la chitarra, non in maniera “sofisticata”, ma riuscivo ad accompagnarmi mentre cantavo un gran numero di canzoni. Il mio repertorio era quello dei cantautori come Guccini, Bennato, Ricki Gianco. Ricordo che passavo l’intera giornata a trovare gli accordi delle canzoni e cantarle, avevo due chitarre, una 6 corde ed una 12 corde per imitare Bennato. Mi piacevano i cantautori, ad un certo punto ho iniziato a scrivere canzoni mie, chiaramente molto semplici armonicamente, ma scrivevo i testi e mi divertivo un sacco.
SA: La passione per la batteria invece quando e come nasce?
TA: Nasce sempre da bambino, ricordo un episodio che fu “fatale” per la mia vita. Durante una vacanza estiva con mia sorella e mia nonna a Bergamo, in una pensione, conoscemmo dei ragazzi più grandi, 18-20 anni, che avevano la macchina. Un giorno ci portarono con loro in piscina, durante il tragitto ascoltai una cosa mai sentita prima che mi attrasse come una potentissima calamita: l’assolo di “The mule” di Ian Paice, da “Made in Japan” dei Deep Purple. Avevo 10 anni, in quel momento decisi che quella sarebbe stata la mia vita. Tornato dalle vacanze comprai subito quel disco, ascoltavo quella traccia tutto il giorno. Poi curioso iniziai a comprare più dischi che potevo, iniziando ad ascoltare musica “nuova”, rock inglese, Genesis, Black Sabbath, King Crimson, Led Zeppelin etc., ascoltavo anche i dischi di mia sorella, Donna summer, Barry White, disco music in genere.
SA: Come inizi a suonare la batteria?
TA: All’epoca non era come oggi dove c’è una scuola di musica in ogni angolo, si avevano poche informazioni e la maggior parte dei musicisti di livello che c’erano non insegnavano, ma suonavano perché di lavoro ce n’era tanto. Quindi ci fu un altro episodio fortuito che segnò la mia vita. Grazie a mio padre, che aveva un edicola nella stazione centrale a Milano, di fronte gli sportelli della biglietteria, lavorava un un personaggio (che oggi dopo 35 anni circa è uno dei miei migliori amici) con l’aria d’artista che puntualmente comprava la rivista “Musica Jazz”: mio padre gli chiese se suonava uno strumento musicale e lui rispose la batteria. Al che mio padre mi telefonò e io mi fiondai alla stazione a conoscerlo. Mi parlò della batteria come di uno strumento impegnativo che andava studiato regolarmente, gli esercizi andavano fatti lenti, e infine mi invitò a casa sua a provare la batteria da studio. Io non sapevo cosa fosse una batteria da studio, ma con il cuore palpitante l’indomani andai a casa sua.
Quando vidi questi pad rimasi profondamente deluso, ciononostante ricevetti la mia prima lezione. Successivamente mi parlò di questo Maestro a Milano, Enrico Lucchini. Io avevo 12 anni, quello fu il mio esordio nel mondo della batteria. Ricordo i primi esercizi con il pad che Lucchini chiamava il tampone, ricordo alcuni dei miei compagni di studi che poi hanno fatto strada come Max Furian, Elio Rivagli, Franco Rossi, Paolo Pellegatti, Enrico Gazzola, ed il compianto Peppe Sciuto, che era un batterista fenomenale, scomparso prematuramente in circostanze tragiche.
SA: Poi come prosegue il tuo percorso?
TA: Il periodo di studio con Lucchini fu un buon periodo, molto formativo, ma visto che dimostravo questa passione per lo strumento i miei hanno iniziato a fare pressioni per un corso accademico, ed anche se all’epoca al conservatorio non c’erano corsi di musica “moderna” ne tantomeno di batteria, provai a fare l’ammissione nella classe di percussioni al conservatorio di Milano. I posti erano pochi ed oltre me scartarono Davide Ravioli, oggi timpanista al Teatro Massimo di Palermo, considerato uno dei migliori in Italia. Non è questo il primo ne l’ultimo caso di mancanza di lungimiranza nelle istituzioni musicali, ma questo ed altro lo sappiamo: fanno parte di una storia lunga e tutta italiana… Comunque da lì, oltre la frustrazione per non avercela fatta, questo episodio mi mise in difficoltà con i miei genitori, ma fortunatamente, sempre tramite quel mio amico famoso della stazione (che si chiama Marco), conobbi Tullio De Piscopo che per me era un mito e che in quel periodo iniziò ad insegnare, ed io entrai nella sua prima classe di allievi. Tullio mi consigliò di provare l’ammissione nella classe di percussioni della “Civica” di Milano dove insegnava un bravissimo insegnante, timpanista del teatro “Alla Scala” di Milano, David Searcy. Alle ammissioni presero sia me che Davide Ravioli quindi, contemporaneamente allo studio della batteria con Tullio, feci tre anni di studi di percussioni sinfoniche. Dopo due anni circa di studi con Tullio lui partì in tour con Pino Daniele ed io, che ero il suo allievo più avanti negli studi, lo sostituii come insegnante nella sua scuola. Avevo 17 anni, mi ritrovai ad insegnare a trenta allievi circa, tutti più grandi di me. Tra questi trenta c’è chi poi ha continuato diventando un professionista, ricordo Andrea Ge, Leif Searcy, Eugenio Mori ed altri di cui non ricordo i nomi. Da lì nacque il mio amore per la didattica. Mi resi conto che avevo delle qualità soprattutto nel capire l’aspetto psicologico dell’allievo. Comunque c’era in me il desiderio della ricerca, sentivo di voler approfondire meglio certi concetti e andare negli Stati Uniti, luogo dove tutto ebbe inizio e dove nacque la batteria.
SA: Parlaci della tua esperienza statunitense
TA: A 21 anni incontrai un batterista romano che era stato a Boston a studiare con Gary Chaffee. Io, che era la prima volta che lo sentivo nominare, gli chiesi chi fosse e lui mi rispose: il maestro di Vinnie Colaiuta, un grande didatta. Quindi da quel momento non avevo solo l’idea di andare a studiare in America, avevo un target, Gary Chaffee. Solo che in epoca pre-internet, pre- facebook, non era semplice né immediate, come oggi, contattare qualcuno negli Stati Uniti: il viaggio poi aveva dei costi non indifferenti rispetto oggi. A questo punto feci un altro incontro karmico al “Capolinea” (storico locale milanese ritrovo di tutti i musicisti jazz di Milano e non solo) con Daniele Di Gregorio, un amico vibrafonista che aveva vinto una borsa di studio a Umbria Jazz per la Berklee College of Music di Boston. L’indomani, mentre studiavo, pensai di andare negli USA insieme a lui! Chiamo Daniele ed entusiasta gli propongo la cosa. Lui accetta ma poco prima di partire prende un lavoro a Canale 5 come percussionista in un programma condotto dalla Carrà. A quell punto mi dice “vai tu che non appena finisco il contratto ti raggiungo”, ma non venne mai. Dopo lo sconforto iniziale mi convinco e parto da solo.
Io che non ero mai uscito fuori dall’Italia mi ritrovai catapultato in un mondo che non ero nemmeno riuscito ad immaginare prima di partire. Ricordo che il volo era Milano-New York/ New York -Boston ed, atterrato a New York, iniziai a rendermi conto di quello che avevo fatto e di dov’ero. Iniziai a provare un turbine di sentimenti e sensazioni, un misto di eccitazione e paura, parlavo male la lingua, non conoscevo nessuno negli States e avevo 22 anni: l’incoscienza dei ragazzi! Dopo qualche giorni il mio arrive a Boston vidi Gary Chaffee e provai un emozione indescrivibile. La nostra prima lezione durò tre ore. Io all’epoca ero convinto, in base ai parametri a cui ero stato abituato in Italia, di saper suonare bene, la mia non era spavalderia ma ingenuità, tanto che dopo tre ore pensavo di non sapere nulla. Gary trasmise una mole di materiale impressionante di cui io non avevo mai sentito parlare: Stickings, linear, ostinati etc., etc… Iniziai a studiare 12 ore al giorno tutti i giorni per 5 mesi, il periodo in cui studiai di più nella mia vita. Feci un salto di qualità pazzesco in breve tempo, ma ero solo, non avevo vita sociale e questo mi ha portato a vivere una realtà distorta, ricordo che se perdevo 10 minuti di studio ero convinto di non concludere nulla. Verso la fine del mio periodo di permanenza negli USA, di sera, andai a vedere un batterista di cui avevo sentito parlare anche in Italia, Bob Moses, che si era trasferito da New York a Boston. Alla fine del concerto ero letteralmente innamorato del modo di suonare di questo grande artista. Trovai il modo di fare una lezione con lui poco tempo dopo quel concerto e, dopo avermi sentito suonare, mi disse una frase che mi smontò: suoni in maniera troppo intellettuale. Capii subito che lui era l’altra faccia della medaglia, dovevo affrontare degli studi con lui, ma dovevo pure ritornare in Italia. Tornato in patria attraversai un periodo di transizione durato 8 mesi circa dove ripresi a lavorare suonando. Alla prima occasione utile ritornai negli States ed intrapresi il percorso di studi con Bob Moses e Alan Dawson. La mia seconda volta negli States fu per restarci a tempo indeterminato, anche perché nel frattempo mi sposai con una ragazza di Boston. In questo periodo iniziai a suonare con tanti musicisti: Antonio Hart, John Medeski, Shlomi Goldenberg, Mercedes Rossi (sorella di Jorge) pianista incredibile scomparsa prematuramente, Roy Hargrove e tanti altri.
SA: Wow Tony, hai fatto degli studi con dei luminari della batteria, e dopo?
TA: Dopo questo periodo molto produttivo decisi di tornare in Italia, anche perché il mio matrimonio finì. Mi resi conto che avevo tecnica, linguaggio, belle idee ma mancava ancora un tassello nella mia formazione. Nel 1992 lessi un intervista a Steve Smith dove affermava che aveva rivoluzionato il suo modo di suonare grazie al metodo d’insegnamento di un certo Freddie Gruber. Con questo metodo aveva migliorato notevolmente il senso del time. Modo di suonare rivoluzionato? Incuriosito iniziai una ricerca che durò anni, soprattutto per la mancanza d’informazioni su Freddie Gruber. Appresi da un batterista friulano, Giorgio Zanier (che ha fatto delle lezioni con un allievo di Gruber, Carl Tassi), che Freddie Gruber aveva smesso di dare lezioni, quindi restrinsi il mio campo di ricerca ai suoi ex allievi: Daniel Glass, Dave Weckl (con cui coltivo un’amicizia decennale), Steve Smith, Bruce Becker. Grazie a Bruce Becker capii l’importanza della spazialità dei movimenti, quello che io chiamo la danza dei movimenti sul time. Migliorai quindi il mio senso del time e del groove.
SA: Tony, il tuo nome è legato al jazz quando nasce questa passione?
T.A.: Dopo qualche anno che iniziai a suonare la batteria, dopo aver ascoltato “Walkin” di Miles Davis con Kenny Clarke alla batteria. Benché fosse per me un linguaggio nuovo e poco comprensibile ne fui, con il tempo, sempre più attratto, fino ad oggi. Negli ultimi anni suono con molto piacere anche il funk e la groove music in generale. Se c’è un bel groove ed un buon time lo stile è quasi irrilevante.
SA: Tre batteristi che ti hanno segnato?
TA: Philly “Joe” Jones, Elvin Jones, Tony Williams.
SA: Tre dischi che ti hanno cambiato la vita?
TA: “My funny Valentine” di Miles Davis, “Crescent” di John Coltrane, “Standards Vol.1” di Keith Jarrett.
SA: Vorresti approfittare di questo spazio per dire qualcosa?
TA: Con tutto il sapere che c’è oggi, internet, riviste e soprattutto scuole musicali ci sono sempre più musicisti con grande preparazione tecnica e teorica. Non pensate solo a riempire la vostra agenda di concerti o a riempire solo il vostro portafogli, ricordate che un musicista, un artista, deve mirare al cuore della gente.
Un saluto a tutti i lettori di Planet-Drum.