ZIN
la batteria made in Padova
Ultimamente devo dire che il vintage di stampo italiano sta uscendo fuori, ci sono un sacco di offerte di strumenti dalle HIPercussion, Meazzi, Wooding, etc., e questo mi fa molto piacere, perché la nostra storia, o meglio quella dei nostri padri musicisti, è stata segnata da quelle ditte o da quell’artigiano.
Oggi mi voglio occupare di uno strumento che ho recentemente recuperato, una Zin, prodotta qui a Padova dall’omonima ditta in cui risiedeva, e risiede ancora, un negozio di strumenti musicali. Prendo proprio dal loro sito la storia di questo strumento.
La storia delle batterie Zin risale ai primi anni del Novecento.
Fu proprio in quel periodo che il giovane Guglielmo Zin, classe 1883, mosse i primi passi nel mondo del lavoro e della musica.
Trascorreva le sue giornate riparando e restaurando trombe, tromboni, clarinetti, flicorni e tamburi nella bottega del vecchio tedesco Kressing. Guglielmo era solo un giovane apprendista, ma in breve tempo acquisì grande padronanza delle leggi del mestiere che imponevano una riparazione su base interamente manuale, o al massimo con il solo utilizzo di vecchi torni a pedale.
I tempi duri impedirono a Guglielmo di proseguire il suo apprendistato padovano nella bottega del tedesco che fu costretto a chiudere anche per la grave crisi economica. Per un non breve periodo si trasferì a Milano dove entrò in contatto con le importanti realtà industriali tra cui le note Cazzani e Orsi. Alcune sue ideazioni di strumenti a fiato particolari furono esposte anche alle Mostre Universali di Parigi. Fu nel 1908 che il giovane Zin, tornato nella sua Padova, aprì una sua bottega con annesso laboratorio in Via del Santo, in prossimità della famosa Basilica di S. Antonio. Ed è proprio qui che iniziò la tradizione delle batterie Zin. Guglielmo, nella sua piccola bottega, oltre al resto, realizzava le prime casse sinfoniche, i tamburi imperiali e rullanti di nuova concezione; ma il tutto senza marchio e in quantità limitata.
Negli anni ’20 entrarono in produzione anche le prime batterie jazz, con cassa da 70 cm, supporto piatto, pedale rudimentale e rullantino, piatto montato al lato della parte battente della cassa.
Nel 1952 fu Fausto, figlio di Guglielmo, che fin da giovane aveva seguito le orme del padre, a modernizzare ulteriormente la limitata produzione, rivedendo dal punto di vista tecnologico la meccanica e il sistema costruttivo dei fusti.
La produzione Zin era l’unica che proponeva un totale rivestimento dei tamburi in celluloide rhodoid, rendendo maggiore raffinatezza dal punto di vista estetico. Il particolare spessore del legno dei tamburi, 4mm di multistrato di pioppo, conferiva alle batterie Zin un maggiore valore, oltre a garantire la massima potenza di suono. La struttura e i rinforzi erano realizzati con legno di faggio e per garantire la sonorità dei tamburi veniva posta all’interno delle casse una lampadina a filamento che veniva accesa per scaldare le pelli. Tutto ciò al tempo rappresentava una grande novità ed era la dimostrazione della continua ricerca e dell’elevata qualità del prodotto a marchio Zin.
La parte della falegnameria era realizzata da artigiani esterni, che Fausto istruiva perché dessero vita a dettagliati prodotti semilavorati. Una curiosità: per la produzione di congas e bongos si rivolgeva a costruttori di botti di vino.
I laboratori Zin avevano altri compiti: si occupavano di eseguire il trattamento della celluloide, il preincollaggio e l’ incollaggio, la levigatura e la lucidatura, il montaggio degli accessori, la progettazione e la costruzione di quello che oggi si chiamerebbe hardware, cioè le parti metalliche e supporti.
Nonostante il basso numero di operai che lavoravano in bottega, massimo quattro, i costi di produzione erano elevatissimi. Anche se Fausto Zin progettava e costruiva macchine dedicate per lavorazioni specifiche, restavano comunque grossi e irrisolvibili i problemi a causa dell’ obsoleta tecnologia del tempo e le limitate risorse economiche per gli investimenti.
Consapevole di questi rilevanti problemi, uniti al fatto che la forte concorrenza della produzione giapponese iniziava e riversare in tutto il mercato mondiale grandi quantità di strumenti a percussione a prezzi molto economici, Fausto si vide costretto a cessare la produzione di batterie tra gli anni 60’ e 70’.
Nonostante ciò, la batteria Zin aveva avuto la propria fama anche all’estero. Fu venduta a musicisti molto noti in Scandinavia, Germania, Francia e Inghilterra. Ottenne visibilità anche alla Campionaria Fiera di Milano dove venne affiancata a concorrenti eccellenti, specie statunitensi e inglesi, e paragonata ad essi per una spiccata sonorità e robustezza dei supporti.
Lo Strumento
La batteria è un semplice quattro pezzi, cassa da 20”, tom da 12”, tom a terra da 16” e rullante da 14” x 5”. Le misure sono in realtà fuori standard, stile Premier, perciò ho usato le misure classiche per capire meglio le dimensioni. Le pelli devono essere recuperate o adattate tanto che la cassa monta una RKB, costruita in Germania, mentre il rullante riesce a montare delle Remo vecchia maniera grazie al bordo di alluminio più piccolo rispetto ai modelli odierni.
Come già descritto nella presentazione, i fusti in pioppo e faggio danno un suono caldo e potente, soprattutto sorprende la cassa, addirittura quasi “moderna” in certi contesti funky, con quel suono un aperto e preciso. Precisando che la cassa è vuota, senza sordine o altro e solo accordata con un po’ di calma. I tom, soprattutto il piccolo, è un po’ più “muto” del tom a terra, probabilmente perché monta una pelle di spessore maggiore (ricordo che proprio nel linguaggio italiano, i tom sulla cassa venivano detti “muti “) , purtroppo al momento non ho pelli di misura adatta per fare un cambio, ma confido che se il tom a terra suona invece molto potente, probabilmente ne guadagnerò anche sul 12” cambiando. La particolarità del tom a terra è che non ha le classiche gambe, ma è montato su un tripode tipo vecchi Timpani da orchestra, smontabile, perciò quando si suona è un po’ più salterino, ma è solo questione di abitudine, e poi all’epoca si suonava anche più piano. Le aste sono tutte semplici, a smontaggio dei piedini uno per uno, e non a chiusura rapida come quelle di stampo americano.
Di questa batteria, ho anche un secondo rullante da 14” x 8”, presente anche nel libro di Luca Luciano, che ha la particolarità di avere la presa per la lampadina, che serviva a scaldare le pelli naturali e a mantenerne costante la tensione.
Dimenticavo, il colore è un nero lucido, rivestimento classico dell’epoca, in celluloide con la classica targhetta triangolare.
Live Experience
Come quasi tutti i modelli italiani che ho, anche la Zin si adatta bene a quasi tutti i generi, tolti quelli “estremi”, e si difende bene anche amplificata. Chiaramente, bisogna saperla inserire sia in un contesto che possa essere adatto, e sia avere un fonico che sappia come lavorare con strumenti che, per esempio, non hanno il buco sulla pelle della cassa. La robustezza è ancora un punto forte, e pure una certa facilità di accordatura, rendono la Zin versatile e sicura, nonostante gli anni sulle spalle. Insomma, un bel voto positivo per la nostra “nonnetta “ padovana, ancora in forma.
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Ciao a tutti